Da “101 Storie su Milano che non ti hanno mai raccontato” di Francesca
Belotti – Gian Luca Margheriti – Newton Compton Editori
E’ la mattina di lunedì 20 marzo 1848. Anche oggi la città si è
svegliata sotto un cielo plumbeo, a tratti pioviggina.
Intorno al
Duomo i suoni delle cannonate arrivano attutiti. Milano non sembra nel pieno della
battaglia. I cittadini che passano dalla piazza per raggiungere le barricate, o
per cercare armi e munizioni, o più semplicemente alla ricerca di qualcosa da
mangiare, si fermano e alzano gli occhi al cielo. Un uomo sta scalando la
guglia più alta della cattedrale. Si tratta di Luigi Torelli, un eroe della
rivoluzione.
Quella mattina
si è alzato all’alba e in compagnia di Scipione Bagaggia ha deciso di salire
sul Duomo. I suoi concittadini hanno bisogno di un segno, devono sapere che
quella guerra si può vincere e che la libertà è davvero a portata di mano.
Ignorando la
possibilità che gli austriaci abbiano minato il tetto, i due uomini si
inerpicano per le scale del Duomo fino allo spiazzo ai piedi della guglia
principale. Qui il solo Torelli, con la bandiera avvolta addosso, sfida le
ultime decine di metri di salita fino a trovarsi faccia a faccia con la
Madonnina. Allora spiega il tricolore e lascia che il vento portatore di pioggia
lo faccia garrire contro il cielo grigio. Dalla piazza la cittadinanza accompagna
la vista della bandiera con urla e applausi. Ora Milano è davvero pronta per la
vittoria finale, ma c’è ancora molto da fare.
L’insurrezione,
quella che verrà poi ricordata come le Cinque Giornate, era cominciata tre
giorni prima, il 18 marzo. Ci si era arrivati come sempre, per una serie di
piccole cause concatenate, che avevano fatto perdere il controllo di una
situazione già esplosiva di per sé. Il governo austriaco schiacciava Milano
sotto il suo tallone autoritario da più di trent’anni. Tutti i moti rivoluzionari
si erano risolti in una bolla di sapone. Ma ora il mondo era maturo per
qualcosa di nuovo.
Pio IX, salito
al soglio pontificio nel ’46, si scagliò senza remore contro gli invasori
austriaci. Anche i Milanesi acquistarono coraggio e nei primi giorni del ’48 indirono
lo sciopero del fumo. La popolazione smise di fumare e di giocare al lotto,
entrambi monopoli imperiali, per far perdere ingenti quantità di denaro al
governo austriaco.
La situazione
scappò subito di mano agli invasori, che lasciarono i militari liberi di fare
quello che volevano, pur di far tornare ai milanesi la voglia di fumare. I
soldati ovviamente usarono il pugno di ferro e in breve a Milano si contarono i
primi morti. A fine giornata i morti erano parecchi. Questo causò la definitiva
rottura tra i milanesi e il governo austriaco. Milano diventò una città
fantasma. Non si usciva più la sera, chi non aveva ragioni lavorative per
spostarsi restava chiuso in casa con le serrande abbassate. Nessuno voleva incrociare
un austriaco. Nemmeno per sbaglio.
Ma come il
fuoco che cova sotto la cenere, fu sufficiente un piccolo alito di vento per
scatenare un incendio. E quel poco di vento arrivò la sera del 17 marzo, quando
a Milano giunse la notizia dell’insurrezione avvenuta a Vienna e delle
conseguenti concessioni che l’imperatore aveva fatto ai cittadini.
La mattina
dopo la popolazione si riunì al Broletto. L’intenzione era quella di costringere
il podestà, Gabrio Casati, a marciare fino al palazzo del Governo, in corso
Monforte, e chiedere al governatore austriaco Spaur di rimettere i poteri nelle
mani della città e dei suoi governanti. Quello che i milanesi ancora non
sapevano era che Spaur era già fuggito, lasciando tutto il potere nelle mani di
Maximilian O’Donnel.
Il corteo si
mosse per le strade di Milano in maniera disordinata. Un numero sempre maggiore
di persone si unì alla folla diretta dal governatore. La gente cominciò ad
affacciarsi alle finestre e a inneggiare all’Italia e a Pio IX. La rivolta
stava per scoppiare.
I milanesi
ebbero facilmente ragione delle guardie del governatore e riuscirono a fare
prigioniero O’Donnel. Nel frattempo il feldmaresciallo Radetzky dichiarò lo
stato di assedio e preparò le truppe al combattimento. Era la guerra.
La prima
barricata, costruita con qualunque cosa capitasse a tiro, mobili lanciati dalle
finestre delle case, botti, addirittura carrozze o libri, sorse davanti alla
chiesa di San Damiano. Qualunque cosa diventava un’arma: un bastone, dei
chiodi, gli utensili da cucina. Si dovevano fronteggiare le cinquecentomila
baionette austriache arrangiandosi come si poteva.
I milanesi combatterono
con un coraggio da leoni e sembrano azzeccate le parole che Ignazio Cantù usa
nel suo libello sulle Cinque Giornate, uscito solo sei giorni dopo la fine degli
scontri: “Noi popolo dabbene, socievole, cordiale, elegante, improvvisammo un
esercito di eroi; vidi una gioventù affatto muova alle armi, combattere con la
tattica di un veterano: vidi vecchi, donne, fanciulli dallo spavento della
legge marziale volare d’improvviso come lioni alla vittoria sui loro oppressori”.
Mentre le
campane suonavano a distesa per tutta la città fino a spezzarsi, i milanesi
innalzarono barricate in tutte le vie. Secondo Carlo Cattaneo, padre della
rivoluzione, se ne conteranno fino a 1650. Nel frattempo bandiere tricolore
cominciarono a sventolare a ogni finestra. Sui tetti delle case si
organizzarono donne e bambini con sassi e olio bollente, pronti a rovesciarli
su qualunque austriaco si fosse fatto vedere. La città era pronta.
Il giorno
successivo Milano si svegliò sotto una coltre di pioggia. Fin dalle prime ore dell’alba gli
scontri cominciarono ad accendersi in ogni parte della città, ma le barricate
fecero la loro funzione. Si cominciò a saccheggiare le armerie dei musei e dei
nobili collezionisti. Accanto a gente armata di schioppi e fucili, non era
strano trovare milanesi in armatura e spadone. Ma la difesa resse. Si continuò
così anche il 20 e i milanesi cominciarono anche a conquistare posizioni. Si
impossessarono del Duomo, di Palazzo Reale, del Broletto, della Direzione di Polizia.
Decine di personalità del governo austriaco caddero nelle mani degli insorti.
Ma gli
austriaci non combattevano regolarmente nonostante la superiorità dei mezzi.
Durante l’assedio di Porta Ticinese le truppe austriache, asserragliate e
circondate dalla folla armata, smisero di sparare ed esposero la bandiera
bianca. Anche i milanesi deposero le armi e, innalzate grida di vittoria,
inalberarono anche loro una bandiera bianca per rispondere agli austriaci.
Alcuni milanesi si avvicinarono per entrare nella Porta, quando dalle finestre
nuove scariche di colpi uccisero decine di cittadini che erano ormai allo
scoperto.
La Porta fu
conquistata nel corso della notte. E nonostante l’accaduto, i milanesi non si
lasciarono andare a scene di scempio nei confronti dei militari austriaci.
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