Da “101 Storie su Milano che non
ti hanno mai raccontato” di Francesca Belotti – Gian Luca Margheriti – Newton
Compton Editori
Si dice che in piazzale Loreto,
nella prima metà del Novecento, ci fosse un ristorante che proponeva ai propri
clienti una cucina molto particolare. Sembra infatti che gli chef del locale preparassero
pietanze a base di carne umana, servendo i piatti a un’ignara clientela. Difficile
dire se si tratti di cronaca o leggenda, ma a scanso di equivoci, di seguito vi
proporremo solo ricette che appartengono alla cucina meneghina più tradizionale.
Quale ingrediente o piatto vi viene
in mente pensando a Milano? Ugo Foscolo associava il capoluogo lombardo ai
derivati del latte, dato che si divertiva a chiamare la città “Paneropoli”(panera in dialetto milanese vuol dire “panna”).
A onor del vero va detto che la sua era una ripicca: non gli erano andate giù
le risate del pubblico della Scala durante la rappresentazione dell’Aiace, dopo l’esclamazione “oh, Salamini”
rivolta da un personaggio della tragedia ai reduci della battaglia di Salamina.
Per smentire il poeta, come prima
ricetta vi proponiamo quella della busecca.[]
Sembra che in passato i milanesi ne facessero un largo consumo tanto da
meritarsi l’appellativo di “busecconi”.
Prendete salsiccia, piedini e
cotenne, rigorosamente di maiale, aggiungeteci della verza e otterrete la
milanesissima casoeula, così come si narra
abbiano fatto alcune massaie che per non
perder troppo tempo tra i fornelli decisero di fare di zuppa, verdura e carne un
solo piatto ricco e sostanzioso. La tecnica delle signore fu presto adottata da
un altro milanese che per consumare velocemente il suo pasto decise di unire il
riso agli ossibuchi, creando così il risotto con l’ossobuco, carne infarinata,
rosolata nel burro e nel vino. Ma a darle quel qualcosa in più è la gremolada, un condimento a base di
scorza di limone, prezzemolo e aglio tritati finemente e poi bagnati da poche
gocce d’olio, che va adagiata sugli ossibuchi.
A proposito di riso, non si può
certo non menzionare uno dei piatti milanesi per eccellenza, ovvero il risotto
con lo zafferano, conosciuto anche come risòtt
giald. Il piatto, semplice da cucinare, si presenta in diverse versioni
oltre a quella tradizionale; accompagnato con funghi (meglio se porcini),
salsiccia, scampi o frutti di mare. Ma ricordatevi ciò che diceva l’affermato
botanico e naturalista Plinio il Vecchio: “Non vi è cosa che si falsifichi
quanto lo zafferano”. Per riprodurre il suo colore, infatti, si possono usare
coloranti chimici sintetici o naturali e altri aromi più economici, che non
hanno però il suo gusto inconfondibile.
Oltre al riso esistono anche gli
asparagi alla milanese, con tanto di uova al tegamino, da preparare sciogliendo
il burro in una padella e disponendo le uova senza romperle, perché si cuociano
all’occhio di bue. A riguardo ecco un piccolo aneddoto: in visita a Milano, Giulio
Cesare fu invitato a pranzo da tal Velerio Leonte, che, tra una portata e l’altra,
fece servire al valoroso condottiero un piatto di asparagi lessati e conditi
con abbondante burro, da accompagnare con le tipiche uova in cereghin. L’ospite romano si sforzò non
poco di mangiare la pietanza imburrata, abituato com’era all’olio d’oliva, dato
che il burro lo usava sì, ma come unguento.
E ora veniamo alla cotoletta alla
milanese che deve il suo nome alla costola, dato che nella ricetta originale è
previsto l’uso di costate di vitello dello spessore di circa tre centimetri.
Resta però un dubbio: la cotoletta è alla milanese o alla viennese? Un
austriaco DOC come il maresciallo
Johann Joseph Radetzky avrebbe rivendicato la paternità meneghina della
cotoletta (strano a dirsi), mentre sembra che l’usanza di servire la cotoletta
con una fettina di limone appartenga effettivamente agli austriaci.
L’ultimo dell’anno, poi, non possono
mancare in tavola zampone e lenticchie: un piatto portafortuna, almeno stando
alla credenza secondo cui le lenticchie rappresentano tante monetine e lo zampone
promette un guadagno assicurato, dato che in dialetto si chiama raspatutt (raspatutto), perché è carne
di maiale, un animale onnivoro che arraffa qualsiasi cosa.
Per quanto riguarda i dolci invece,
è d’obbligo assaggiare le “ossa dei morti”, ossia biscotti a base di mandorla
tostate, con un delicato retrogusto di cannella, che devono il loro nome al
fatto che erano confezionati in occasione della festività dei morti.
E ora veniamo a qualche vecchia
usanza: sapevate che inizialmente in osteria si poteva ordinare solo da bere?
Ma quando gli osti hanno intuito che servendo anche da mangiare sarebbero
aumentate le ordinazioni di vino e altre bevande, si son improvvisati cuochi, e
chissà che i piatti che servivano non fossero conditi ad arte per far aumentare
la sete ai clienti. Attenzione ai guadagni facili, però, perché l’oste della
Pattona, un tempo l’unica osteria di piazza Mercanti (così chiamata perché nei
mesi invernali il suo ingresso era protetto da una pesante tenda detta appunto patta) fu arrestato per aver aumentato
il costo di una porzione di polenta che da due soldi e mezzo era passato a tre.
L’oste si disse pentito, ma poteva essere colpa sua se la statua di sant’Ambrogio,
collocata nella torre del palazzo dei Giurenconsulti, ha tre dita sollevate?
Rimanendo nei paraggi, se si decideva di aprire un locale, era meglio essere
dotati di un buon udito, in modo da sentire i rintocchi della campana del
Cordusio, posta sulla torretta del palazzo dei Giurenconsulti. La campana in
questione infatti regolava l’apertura e la chiusura di osterie e trattorie, e
guai a servire i clienti dopo l’ultimo rintocco.
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